Il mio racconto tratto dalla raccolta “In Viso Veritas”. L’ebook (con i racconti di altri autori) lo potete scaricare qui sul sito de “I discutibili” o sulla barra laterale del mio blog.
U picciriddu
Peppe era sveglio dall’alba. Le braccia incrociate sotto la testa e gli
occhi chiusi.
Se ne stava tra le pieghe delle lenzuola, agitando a tratti i piedi come
fossero barche in mezzo alla maretta.
Dalla cucina veniva l’odore delle patate bollite appena schiacciate e
arrivava al suo naso quasi a rubargli le ore prima ancora di camminarci
sopra. Ma il fastidio per questo furto immediatamente spariva dentro
l’amido e la polvere della farina, non appena immaginava sua nonna che
impastava, in piedi di fronte al tavolo.
Si ricordò allora che era il giorno di san Giuseppe, il giorno del suo
onomastico.
Si alzò dal letto e scalzo arrivò alla porta della cucina, senza fare
rumore si fermò un attimo prima di entrare spiando le mani di sua nonna.
Erano ferme, decise, davano forma ai pensieri di gola e se poi la pasta
incollava le dita, lei dolcemente la tirava via come quando si sbuccia un
fico.
Peppe era cresciuto da sempre, o comunque da che lo ricordava, con i
nonni paterni in una casa vicino al mare. Vicino quanto basta per sentire il
sale nelle sere d’inverno e lo scirocco nei pomeriggi estivi.
Suo padre lo conosceva soltanto attraverso i racconti del nonno,
quando leggeva le cartoline che arrivavano a singhiozzo durante i mesi
dell’anno.
Il nonno, strizzando gli occhi, raccontava di posti meravigliosi, di cibi
prelibati, di montagne bianche e animali colorati.
A Peppe quelle cartoline sembravano pozzi profondi da cui si tirano
fuori all’infinito i secchi pieni d’acqua, anche se la bocca del pozzo è
stretta e il muro è basso, e ti chiedi da dove possa mai arrivare tutta
quell’acqua.
Ci vollero molti anni per capire che in realtà era il cuore del nonno ad
allungare la penna del padre.
Fu quando imparò a leggere su quelle cartoline quasi sempre “Saluti
da Udine” .
Di sua madre invece sapeva poco e quel poco lo trovava dentro le
imprecazioni dalla nonna, nelle rare occasioni in cui qualcosa andava
storto. Una volta per esempio, mentre giocava, Peppe ruppe la navetta del
telaio e la nonna quasi si strappò la crocchia dalla testa per la disperazione,
agitando le braccia in aria e urlandogli contro:
– Maledetto! Maledetto il diavolo e quandu si baciau a’ to mamma
‘nta faccia! (1)
Da allora, ogni volta che Peppe cercava di immaginare sua madre,
figure infernali si sovrapponevano le une alle altre e una donna dalla faccia
di fuoco e con un bambino in braccio ballava tra le fiamme dimenandosi
come una tarantolata.
Non era solamente l’origine della sua nascita che Peppe aveva perso
negli anni, i nonni infatti avevano cancellato anche il ricordo del suo nome
e lui era diventato per loro solamente “u picciriddu”(2), anche dopo che la
barba lo aveva scurito e le gambe sollevato.
– Buongiorno – disse Peppe entrando in cucina.
– Picciriddu ti levasti? (3) – rispose la nonna mentre staccava la guancia
dal bacio del nipote.
La colazione stava già sul tavolo come al solito: il latte nella tazza
bianca coperta dal piattino, il pane di grano e accanto i biscotti
all’ammoniaca.
Lui, però, quella mattina aveva fretta di andare via, voleva festeggiare
il suo vecchio nome con un programma ben preciso: spendere molto del
denaro che aveva guadagnato con la puttana più famosa del paese.
Tutti la chiamavano “‘a magàra ”(4), dicevano che fosse un po’ avanti
con gli anni ma che tuttavia la sua arte amatoria fosse talmente fine da
ammaliare chiunque, facendogli dimenticare tempo, distanze e differenze.
Chi c’era stato raccontava che teneva frutta fresca di stagione sul
comò vicino al letto, perché sosteneva che dio aveva dato la bocca per
baciare ma anche per mangiare e che fare entrambe le cose nello stesso
tempo era come pregare.
Rocco, amico da quando i piedi nudi incontrano per la prima volta la
terra, aveva deciso che Peppe doveva assolutamente provare quel piacere e
lo aveva convinto ad andarci proprio il giorno del suo onomastico.
– Futtìri faci passari ‘a fungia (5) – gli diceva Rocco quando, nel
guardare Peppe assorto nei pensieri, scambiava il suo silenzio come
un’offesa verso il mondo.
E visto che Peppe, anche quando rideva, con il mondo un po’ ce
l’aveva davvero aveva pensato che forse fottere un puttana lo avrebbe
aiutato a fottersi anche il mondo.
Dopo colazione Peppe si vestì con cura, arrotolò i soldi e se li mise in
tasca, bagnò sotto la fontana i capelli neri fingendo una lucentezza senza
“brillantina” e uscì rapidamente da casa nella speranza di non incontrare
gli occhi di sua nonna.
L’aria fuori era tiepida e il pero selvatico sulla strada sterrata
sembrava annunciare la primavera come lo può fare una gran dama di
corte che, ancora assente, vuole già che il suo nome sia presente sulla
bocca di tutti.
A passo svelto si diresse verso la casa della magàra, con lo sguardo
dritto, le mani sudate in tasca e la fretta di festeggiare un nome che non
aveva fonte e non conosceva seme.
Arrivò da lei che non era ancora mezzogiorno. La casa stava alla fine
del paese, aveva quattro alti gradini che la separavano dalla strada e una
porta di legno quale unico varco verso quell’altare d’amore.
Peppe se ne stava sul primo gradino chiedendosi se dovesse bussare o
aspettare, quando un uomo uscì dalla porta e vedendolo in attesa gli fece
segno d’entrare, roteando il braccio come quando si vuole affermare una
grande soddisfazione.
Peppe entrò dentro, sentiva l’acqua di un rubinetto aperto e si fermò
in mezzo all’unica stanza che c’era.
Una tenda pesante dai colori vivaci divideva la camera in due, lo
scroscio dell’acqua proveniva da lì dietro.
Improvvisamente la tenda si aprì e Peppe fece un balzo all’indietro, il
respiro s’interruppe e un immediato pallore gli succhiò via ogni colore.
La magàra stava di fronte a lui, era nuda e bellissima; dentro il suo
viso due occhi neri sembravano olive e la sua bocca era come il succo
delle more… ma sulla guancia, la guancia destra che ora Peppe le fissava
atterrito, c’era un’ombra che si apriva tutt’attorno, una macchia di colore
rosso formava una voglia sulla faccia quasi a disegnare una lingua di
fuoco.
– E tu cu si? – gli chiese la donna – mi pari nu picciriddu… ti
schianti? Mi vardi comu si viristi u demoniu! Veni cà e mangiati ‘na pira! (6)
Ma lui, immobile, stava piangendo e non seppe dire altro che la
verità.
– Sono io, sono Giuseppe.
(1) Maledetto il diavolo e quando ha baciato tua madre in faccia
(2) il piccolino, il bambino
(3) Piccolino ti sei svegliato, alzato dal letto?
(4) La maga, la strega
(5) Fottere fa passare la tristezza, il muso lungo, l’espressione della faccia provocata ad esempio dalla tristezza o la rabbia
(6) Tu chi sei? Mi sembri così piccolo…hai paura? Mi guardi come se avessi visto il demonio! Vieni qui e mangiati una pera!
anche in prosa non ti smentisci!
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Massimo che bello che ti è piaciuto! 😀
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Molto bello complimenti 🙂
Date: Tue, 19 May 2015 11:52:06 +0000 To: silvia-1959@live.it
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Grazie Silvia, nella raccolta oltre al mio ci sono racconti che sono convinta ti piaceranno 🙂
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Già apprezzato ma riletto l’ho trovato splendido e gradevole da leggere. Sei brava ed eclettica.
Complimenti
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Sapere che l’hai riletto volentieri mi fa contenta ma che ti sia piaciuto anche con la seconda lettura non può che farmi felice!
Un abbraccio e grazie Nwb 🙂
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Vuol dire che è veramente buono 😀
Un abbraccio blogghina
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